Formazione e Influenze Letterarie

La formazione culturale di Grazia Deledda è stata piuttosto varia e ha spaziato fra autori e generi differenti. La scrittrice non ha mai aderito ad una specifica corrente letteraria, anche se la critica ha rintracciato nella sua produzione giovanile l’influsso del romanzo d’appendice francese e successivamente ha rinvenuto dei motivi propri del Naturalismo e del Verismo, una sensibilità risalente al Simbolismo e al Decadentismo, certe suggestioni da parte della letteratura russa coeva.

Uno dei rimproveri che più spesso è stato mosso a Grazia Deledda è quello di avere avuto una formazione culturale farraginosa e disordinata, frutto di letture precoci e senza guida, in cui si frammischiavano disinvoltamente Ponson du Terrail e Fogazzaro, D’Annunzio e Dostoevskij.
Invero è già stupefacente che una bambina nella Nuoro del periodo crispino abbia avuto la possibilità di leggere e di studiare, anche se da autodidatta. È noto che all’epoca non si riteneva opportuno dare alle donne un’istruzione superiore, riservata solo ai maschi, anche se poco dotati o scarsamente volenterosi, come appunto i fratelli della Deledda. Non c’è da stupirsi, quindi, se la giovane Grazia leggesse in modo poco selettivo, seguendo la logica dell’accumulo, della quantità piuttosto che della qualità, più in base alla disponibilità effettiva di materiale, che assecondando il proprio gusto personale; leggeva, talvolta anche di nascosto, quello che trovava in casa: i libri dei fratelli più grandi, le riviste che talora essi procuravano e, naturalmente, la Bibbia .

Nel corso del tempo la scrittrice ha avuto modo di affinare le sue scelte, anche perché attraverso la lettura sperava di ovviare a quello che lei stessa riteneva il suo maggior difetto: avere una competenza linguistica dell’italiano non all’altezza delle idee e dei concetti che voleva esprimere. La lingua madre della Deledda era infatti il nuorese, più che la lingua nazionale e nello scrivere affrontava difficoltà analoghe a quelle sostenute da un illustre contemporaneo, Italo Svevo, che fin dallo pseudonimo denunciava la sua parziale appartenenza all’ambito mitteleuropeo.

Proprio questa sua presunta incultura le avrebbe, a detta di molti, impedito di aderire ad un movimento letterario in particolare, cosa possibile solo con una più ampia preparazione culturale; di conseguenza, si rende arduo un suo preciso inquadramento nella storia della letteratura italiana. Alcuni sono propensi a collocarla all’interno del Naturalismo e del Verismo; altri tendono ad includerla all’interno del Simbolismo e del Decadentismo; altri, infine, le attribuiscono un pensiero morale che la avvicina ai romanzieri russi. In realtà, non sembra che la Deledda non fosse in grado di condividere la poetica di una determinata corrente culturale dell’epoca: più probabilmente non ha voluto impastoiarsi in una ideologia definita, perché ne sarebbe venuta meno la sua propria sensibilità istintiva, la sua carica di autentica originalità.

I primi modelli letterari di Grazia Deledda sono, comunque, i romanzi d’appendice francesi e la letteratura per le giovinette. Le vicende delle sue prime opere – Sangue sardo, Memorie di Fernanda, Stella d’Oriente, Fior di Sardegna, tanto per citarne qualcuna, fino almeno a Anime oneste e La via del male – trattano di amori tragici, intrecci melodrammatici, delitti passionali, rivalità fra sorelle, agnizioni finali. Si può ravvisare anche un richiamo al romanzo gotico e dell’orrore in alcune novelle, come per esempio Di notte (in Racconti sardi), in cui aleggia l’elemento soprannaturale; oppure nei deliri in dormiveglia di Maria Maddalena, ne La madre, la quale si convince di vedere nel fantasma dell’antico parroco dissoluto, la proiezione di come sarebbe potuto diventare il suo Paulo. Altri ha visto nell’angoscia di Efix (in Canne al vento) tracce de Il cuore rivelatore di Edgar Allan Poe, in cui il senso di colpa di un omicida si materializza nella sua immaginazione malata, fino ad imporgli di rivelare la sua colpa.

La produzione successiva di Grazia Deledda viene spesso inserita nel movimento del Verismo di cui taluni la considerano una sorta di epigona. Il raffronto con Verga parte semplicisticamente dal fatto che ambedue hanno ambientato le vicende di loro creazione perlopiù nella loro isola natia, la Sicilia l’uno, la Sardegna l’altra. Il regionalismo verghiano, peraltro, non ha niente a che spartire con la visione mitica e primitiva che è propria della riflessione deleddiana.

I due autori vengono paragonati anche perché i loro personaggi appartengono ad una società ancora in fase pre-industriale e sono frequentemente persone umili, contadini, pastori, servi, “gente di nessuno” e tuttavia capaci di eroismo, di sacrificio, di abnegazione: la giovane Olì, la protagonista di Cenere, sola, abbandonata e disprezzata con il suo figliolino al collo, può, per esempio, in qualche modo ricordare la sventurata Nedda; Annesa, che ne L’edera è devota al padrone fino all’omicidio, ha qualcosa in comune con l’animale fedele e silenzioso incarnato da Diodata, serva e amante di don Gesualdo Motta.

Entrambi gli scrittori hanno descritto, inoltre, anche una classe sociale di debosciati, incapace di addossarsi le proprie responsabilità: una nobiltà che non riesce a stare al passo con i tempi, e persevera nel pretendere un rispetto che ormai si deve guadagnare. Giacinto di Canne al vento o don Paolo de L’edera sono emblemi di una classe in disfacimento, spesso rea di dissipazione e di inettitudine, colpevole di tradire la sua stessa terra natia, talvolta incapace di redenzione; essi recitano parti analoghe al Barone, ex padrone di Mazzarò, ne La roba e al Duca de Leyra di Mastro don Gesualdo, costretti a vendere la propria roba e finanche se stessi, fino all’abisso della degradazione.

Non viene risparmiato nemmeno il clero corrotto: la raffigurazione del prete dissoluto, il cui fantasma sembra riapparire per terrorizzare la protagonista de La madre, ha una certa rassomiglianza con il Reverendo verghiano. Esistono tante possibili analogie fra i personaggi – e si potrebbe proseguire con altri esempi -, ma non possono non esser evidenti altrettante divergenze in relazione alla poetica dei due autori, all’uso del linguaggio, alla struttura narrativa, alla figura stessa del narratore: nelle narrazioni della Deledda non c’è la cosiddetta “eclissi dell’autore” propria dei veristi, né lo sguardo “clinico” tipico degli osservatori di stampo naturalistico.

Un’altra parte della critica avverte sulla Deledda l’influenza della sensibilità propria di alcuni atteggiamenti del Decadentismo, in particolare di Fogazzaro e, anche se in misura minore, di D’Annunzio. Tale valutazione si riconnette alla presenza di personaggi che vengono interpretati come protagonisti di esperienze proibite, vittime dell’esaltazione di comportamenti irrazionali e irrefrenabili, schiavi delle loro passioni e dei loro vizi, oppure turbati profondamente dall’etica del sacrificio e sostenuti da un acceso misticismo. Anche da una conoscenza superficiale della scrittrice sarda si può evincere quanto la Deledda sia lontana da altre valenze tipicamente decadenti, quali l’estetismo e il dandismo, l’attrazione per l’esoterismo e l’occulto; viceversa sembra più vicina a certe suggestioni di marca simbolista, specie nella scelte onomastiche (si pensi in particolare a don Paulu e Maria Maddalena, i nomi del sacerdote tormentato e di sua madre ne La madre).

Senz’altro in molti scritti della scrittrice barbaricina si avverte il disagio dell’uomo del primo Novecento di fronte ai radicali cambiamenti apportati dalla civiltà industriale e davanti alla sparizione di un mondo contadino arcaico, che sarà successivamente idealizzato, in quanto basato su principi universali ed immortali; un mondo al quale si sovrappone una società borghese tuttavia incapace di proporre valori che possano validamente sostituirsi a quelli precedenti. In questa chiave, la riflessione della Deledda si potrebbe paragonare alla poetica dell’inetto che, in contemporanea, Italo Svevo stava sviluppando. Si noti che, data la scarsa diffusione dei primi lavori sveviani, difficilmente la Deledda ha potuto leggerli ed esserne influenzata; tenendo conto del fatto che Una vita è stato pubblicato nel 1892 e Senilità nel 1898, si potrebbe sostenere che i due scrittori sono stati attraversati dalla stessa temperie culturale e hanno sortito esiti in qualche modo accostabili.

L’inadeguatezza di stare al mondo del protagonista eponimo di Elias Portolu (edito nel 1900), la sua debolezza e il suo inutile macerarsi nel rimorso del peccato; la sua mancanza di coraggio nell’affrontare la possibilità di una vita normalmente felice accanto alla donna amata e ad un figlio che potrebbe chiamare suo; la scelta di comodo dell’abito talare che dovrebbe proteggerlo dalla tentazione e conferirgli una forza che non possiede; tutti questi sono elementi assimilabili alle conclusioni cui Svevo era pervenuto con il suo primo romanzo Una vita, nel quale l’inetto protagonista si sentiva incapace alla vita, inabile a compiere delle scelte che implicassero assunzione di responsabilità e che mettessero in campo capacità e qualità esibite, ma mai comprovate.

Una certa parte della critica considera, invece, Elias Portolu come una delle opere nelle quali Grazia Deledda ha mostrato di ricalcare problematiche e temi affini a quelli affrontati dal populismo anarcoide e dai romanzieri russi di fine Ottocento, in particolare Dostoevskij, il cui Delitto e castigo (1866) aveva suscitato un’immediata eco nella cerchia degli intellettuali italiani e aveva sortito per filiazione diretta altri celebri romanzi quali Il cappello del prete (1887) di Emilio de Marchi, Il marchese di Roccaverdina (1901) di Luigi Capuana e in un certo senso Giovanni Episcopo (1891) di Gabriele D’Annunzio.

Il senso di colpa e il rimorso, la debolezza umana di ricadere del peccato pur essendone inorridito, sono propri sia del personaggio di Elias, sia del protagonista di un altro romanzo in cui la spiritualità religiosa fa da sfondo prepotente e cioè La madre; l’argomento, peraltro era già stato almeno parzialmente affrontato in quella che molti (a partire da Luigi Capuana) ritengono la prima grande opera narrativa dell’autrice sarda, La via del male.

L’opera che tuttavia maggiormente si presta ad un accostamento con Delitto e castigo è L’edera, in cui Annesa è equamente divisa fra l’ossessivo ricordo del delitto e l’angoscia di esserne riconosciuta colpevole, fino a diventare lei medesima il più implacabile giudice di se stessa, tanto da imporsi una vita di espiazione e di catarsi. Un percorso simile è quello effettuato anche da Efix in Canne al vento. Si badi come i due personaggi hanno in comune il fatto di essere dei servi che hanno trasgredito una delle più severe regole della società classista, vale a dire che hanno osato alzare gli occhi sulla classe padronale. Aver amato Paolo e Lia è di per sé un motivo sufficiente perché nei due personaggi, perfettamente inseriti nel contesto sociale di cui conoscono e accettano tutti i canoni, si istilli il senso di colpa, esasperato poi dal delitto, commesso proprio per amore e forse da un’oscura volontà di pagare il fio della loro trasgressione.

Fine Unità V - continua con le Conclusioni conclusioni

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Unità V

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