Grazia Deledda - Fortuna critica

Fin dagli esordi Grazia Deledda ha avuto una ricezione critica discordante. Stroncata da Bendetto Croce ed esaltata da Momigliano, ancora oggi la critica esprime nei suoi confronti pareri oscillanti fra l’apprezzamento e la recensione severa; disaccordo che neanche il conferimento del premio Nobel è riuscito a conciliare.

È passato oltre un secolo dal momento in cui Grazia Deledda si è affacciata nel mondo letterario: i giudizi sulla sua opera, quindi, sono comprensibilmente un gran numero e di diverso tenore. Ondeggiano, infatti, dal più pieno apprezzamento a una tiepida attenzione, dalla decisa stroncatura ad una parziale valorizzazione. Nel 1926 viene insignita del premio Nobel per la Letteratura con la seguente motivazione: “Per i suoi scritti idealisticamente ispirati che con chiarezza plastica rappresentano la vita sulla sua isola nativa e con profondità e partecipazione trattano dei problemi umani in generale”. È la seconda, l’unica italiana, del ristretto gruppo di dieci scrittrici ad avere conquistato l’ambito riconoscimento.

L’attribuzione del Nobel, lungi dal far tacere le polemiche, le ha anzi sollevate: per alcuni, infatti, la Deledda è stata fregiata della massima gloria letteraria non tanto per il valore della sua produzione, ma per il suo contributo sociale, vale a dire per il fatto di essere una sorta di simbolo, una scrittrice donna che, pur provenendo da una realtà e da una società ostile all’emancipazione femminile, è riuscita ad affrancarsi e ad imporre la sua visione della vita. Non manca, del resto, chi vede nella scrittrice una sensibilità ed una moralità significative di un’epoca, nonché delle capacità descrittive e riflessive in grado di restituire valori assoluti e universali in cui ciascuno può rispecchiarsi.

Quella che segue è una breve rassegna che non intende essere esaustiva, ma che mira ad inquadrare criticamente l’autrice attraverso le opinioni dei più prestigiosi studiosi di letteratura.

Luigi Capuana, uno dei caposcuola del Verismo, si pone, fin dal 1898, tra i primi benevoli recensori dell’autrice nuorese. Afferma, infatti, che il romanzo Via del male “nonostante i difetti, è un assai un bel lavoro”; pur valutando l’esordio letterario della Deledda poco promettente, ritiene che risulti evidente quanto “il suo ingegno si sia maturato e quali promesse ci fa per l’avvenire”; invita la giovane scrittrice ad occuparsi della sua terra natale ed a “continuare a lavorare in questa preziosa miniera dove ha già trovato un forte elemento di originalità”.

La definizione della Deledda come di “una grande scrittrice, per la quale la critica non ha ancora fatto il proprio dovere” è, invece, di un altro scrittore, Federico Tozzi (1916), ammiratore soprattutto di Marianna Sirca, un personaggio che, a suo parere, dimostra “come da uno spunto regionale si possa cavar fuori […] elementi moralmente profondi e tali da avere significati universali”.

Un insigne critico, Luigi Russo, riconosce (1923) a Grazia Deledda una volontà ferrea che le ha permesso di diventare da autodidatta a “diligente erede e discepola, pur nella modestia delle sue forze femminili, degli insegnamenti dei Verga e dei Dostoevskij”. Intuisce, quindi, nella scrittrice una severa autodisciplina in ambito linguistico e una felice capacità di creazione, qualità che hanno trasformato una “sedula massaia” in un’artista che “rientra, a suo modo, nel circolo della letteratura europea”.

Piuttosto negativa, invece, l’opinione che Benedetto Croce esprime sulla scrittrice sarda (1934). I difetti principali, a suo giudizio, consistono in una certa ripetitività degli schemi narrativi e nella rappresentazione dei personaggi per categorie fisse, limiti che rendono difficile che una “delle sue innumeri creature” rimanga impressa nella memoria dei lettori. All’accusa di immobilismo – che rimarrà a lungo una sorta di marchio sull’opera della Deledda – , Croce aggiunge, a differenza di Russo, che la scrittrice “è da avvicinare non tanto all'arte di un Dostoevskij e neppure di un Verga, ma piuttosto a quella di un altro romanziere sardo della generazione precedente: Salvatore Farina”.
Il critico ritiene, inoltre, che la narrazione si innesti troppo spesso in un contesto di moralità, il cui eccesso implica l’inserimento dell’opera della Deledda nella schiera della cosiddetta “non arte”. Sulla stessa linea anche Eurialo De Michelis (1938), per il quale il pensiero morale influenza Grazia Deledda nella gran parte della sua produzione, al punto da rendere inscindibile il mondo letterario dal mondo morale e religioso.

Di parere diametralmente opposto Attilio Momigliano (1945), tra i più convinti assertori della validità delle opere di Grazia Deledda, ritenuta un gigante del Novecento proprio per il rigore morale presente nelle sue opere, prima fra tutte Elias Portolu. Completamente estranea sia al Verismo che al Decadentismo, sia alle istanze degli autori russi che al pittoresco della letteratura folcloristica, l’autrice, secondo il critico, produce narrativi che “hanno un carattere prepotentemente sardo” e che riescono a far emergere il primitivismo di una terra ancora, per certi versi, selvaggia. In conclusione, Momigliano afferma che “nessuno dopo il Manzoni ha arricchito e approfondito come lei, in una vera opera d'arte, il nostro senso della vita”. Analogo carattere di originalità e ricchezza creativa viene attribuito alla scrittrice sarda da Francesco Flora, il quale (1947) le attribuisce la capacità di parlare “un linguaggio assoluto e universale”.

Ancora negli anni Quaranta, Natalino Sapegno rimprovera la critica italiana di non essere riuscita ad uniformarsi riguardo ad un giudizio su Grazia Deledda, ma di fornire pareri spesso antitetici pregni di “dissensi radicali e inconciliabili, sia sul valore, sia sul significato stesso e la sostanza” dell’opera della scrittrice nuorese. Successivamente (tra il 1960 e il 1971), Sapegno pone come spartiacque dell’attività della Deledda la composizione di uno dei suoi romanzi maggiori, Elias Portolu, e rintraccia un preciso stilema come comune denominatore dei suoi narrativi, cioè una certa atmosfera che si respira invariabilmente e che riporta ad un’energia istintuale, la quale scaturisce dalle origini isolane della scrittrice. Tuttavia, intravede nella scarsa sistematicità della cultura e della formazione della Deledda il suo maggiore limite. Anche Emilio Cecchi (1969) muove dei rilievi riguardo a questa lacuna; il critico le tributa peraltro la capacità di entrare intimamente in un mondo di affetti di stampo patriarcale anche se all’interno di vicende “chiuse nel particolarismo di un ambiente”.

L’atteggiamento della critica nei decenni successivi non muta: si possono indicare pareri assolutamente negativi come quello di Aldo Onorati (1976), il quale nega alla Deledda qualunque spessore letterario e taccia di incompetenza la giuria che le ha assegnato il premio Nobel; o il giudizio positivo di Piromalli (1972-1980), che la ha soprannominata “la portavoce della Sardegna”, nonché l’agile volumetto di Mario Miccinesi (1975); ambedue i critici si occupano meticolosamente di tutta l’ampia produzione della scrittrice. Spicca, inoltre un ben documentato saggio di Vittorio Spinazzola (1981) che esalta la capacità della Deledda di cogliere “esemplarmente i sintomi del disagio di cui tutto il mondo contemporaneo soffre” e di sottintendere l’universale, pur trattando, in apparenza, di una particolare realtà, in bilico “tra l’arcaismo di una civiltà contadina […] e la modernità di un mondo borghese inetto”.

Tra gli ultimi esiti della critica contemporanea si possono sottolineare alcuni recenti saggi (1996) di Marziano Guglielminetti, il quale si sofferma segnatamente su Canne al vento, in cui riconosce forti le influenze dei romanzieri russi e determinanti, fin dal titolo, le suggestioni dal testo biblico; di Giovanna Cerina, conterranea della scrittrice, la quale si occupa da lungo tempo delle opere della Deledda e in particolare dei racconti; della scrittrice Maria Giacobbe, che ritiene che il senso di colpa e di rimorso che alberga in tanti dei personaggi deleddiani, non sia da attribuire tanto ai peccati carnali, quanto alle trasgressioni di carattere sociale; si verifica ad esempio, nel caso in cui una donna agiata tradisce il proprio ceto superiore abbassandosi ad amare un servo (come per esempio Marianna Sirca) o quando un sacerdote fatica a combattere contro il desiderio sensuale (come il protagonista de La madre). Infine, Nicola Tanda si riferisce alla Deledda (2003) come ad una figura anomala, che ha saputo trasfigurare le sue esperienze vissute in opere che contribuiscono a fondare una vera e propria letteratura sarda e che toccano temi di ancora scottante attualità.

Fine Unità IV - continua con l'Unità V unità 5

© 2004 Laboratorio multimediale Su Probanu - Autori dell'opera

 

Unità IV

" "